Montoro, omaggio a Don Raimondo, il curato di San Felice
Il terribile sisma di domenica 23 novembre 1980 alle 19,35 segna, nella mappa delle tragedie sismiche che hanno colpito l’Irpinia nel corso dei secoli, l’evento più doloroso per la quantità di vite umane distrutte, per la perdita incalcolabile del patrimonio urbanistico e artistico, per i drammi che sono scaturiti nelle generazioni presenti all’evento e nella memoria collettiva conseguente.
Sono trascorsi trentasei anni da allora. Oggi noi siamo i testimoni di quel boato, delle grida, dei pianti da sotto le macerie, dello sbandamento che ci colse quando intervenimmo da subito sopra le macerie, freneticamente con le mani e i recipienti di plastica, convinti che ce l’avremmo fatta a tirare fuori chi gemeva là sotto.
La luna piena spargeva la sua luce lugubre sulle macerie e sulle fiamme che si levavano dalle case popolari accartocciate: tre piani ridotti a meno di due metri di macerie. Una lunga notte di tentativi: non salvammo tutti. Molti erano già spirati sotto quelle rovine che erano poco prima la loro casa e la famiglia.
Anche ora, che racconto, non riesco a trattenere il dolore atroce di quella lunga notte che sembrava non volesse finire.
Molti familiari delle vittime, che erano sotto le macerie, lavorarono fino allo sfinimento, reagendo anche con la violenza verso chi accostandosi a loro chiedeva di fermarsi perché era inutile scavare: in quegli istanti la perdita era impensabile.
Quando arrivò l’alba e la catastrofe fu chiara il pianto lavò la polvere delle macerie ferma sul viso e sulle mani nude ferite in più punti.
Ricordo, è vero, ma il ricordo punge l’anima e i giorni che seguirono quella che è stata definita ricostruzione è utile che vengano trasmessi alle nuove generazioni ferme sugli schermi degli ipod touch. Anche ora che il sisma si è ripresentato nelle aree delle Marche e dintorni: luoghi cari ai conciatori di Solofra per lo scambio del prodotto finito in quei luoghi dove, da secoli, si realizzano calzature e prodotti di pelletteria di altissima qualità.
Le serate che seguirono la domenica del ventitré novembre furono tempestate da migliaia di altre scosse: si dormiva in auto insieme a moglie e figli, in luoghi aperti, si accendeva un gran fuoco centrale che scaldasse noi e riempisse di luce la notte. Arrivò anche un precoce inverno fatto di grandine, nevischio e un vento freddissimo.
Nel villaggio prossimo al centro urbano viveva nell’antica canonica, tutt’uno con la Pieve del XIII secolo dedicata al Martire eponimo, il vecchio curato nato nel 1916 poi scomparso nel 2007, il quale aveva raccolto nello spazio di fronte all’ingresso del cortile interno della pieve, le circa venti famiglie che formavano il popolo cristiano in quel luogo. Là, nello spazio, svettava un bellissimo tiglio alto circa trenta metri che dava riparo in quelle freddissime sere alla gente accampata con le auto e qualche sistemazione alla men peggio.
Il fuoco veniva acceso nel centro dello spazio, a poca distanza dall’imponente albero, con la legna presa dai campi circostanti e in parte portata dalle abitazioni contadine delle famiglie accampate.
Le scosse continuavano e la legna da ardere lentamente finiva sotto gli occhi dei bambini che avevano tanti timori per rientrare nelle proprie case.
Il vecchio curato, per paura dei ladri, non aveva lasciato che per il lungo minuto della scossa della domenica la Canonica e la Chiesa e rientrava sistematicamente accanto al focolare affacciandosi durante le lunghe nottate, avvolto nel suo lungo pastrano nero, scialle nero e tricorno sulla testa, per verificare lo stato delle anime che il Signore gli aveva affidato in quei tristi momenti di sventura.
Pensare che aveva già vissuto quelle scene già nel settembre del 1943,quando appena nominato parroco in quell’antichissima chiesa, aveva visto i grandissimi bombardieri alleati calare dal cielo, nel fulgore del riflesso solare, carichi di morte sulle popolazioni del suo villaggio e degli altri centri urbani vicini.
Durante una di quelle sere dopo il sisma fu raggiunto da un contadino il quale, facendosi portavoce delle altre famiglie, chiese al curato il permesso di segare il secolare tiglio disposto proprio di fronte all’ingresso del complesso ecclesiale per farne legna da ardere.
Il curato guardò negli occhi il contadino, poi rispose candidamente: “aspettiamo domani mattina, la notte porta consiglio!”
Era uomo di poche parole, molta saggezza e tanta sincerità, nei confronti di tutti i cristiani che bussavano alla sua porta, i quali sovente subivano rifiuti nelle altre parrocchie mentre qui trovavano la porta aperta, dopo una “bella confessione”.
Il mattino seguente il buon curato celebrò la Santa Messa alle sette e si rivolse dall’altare ai suoi parrocchiani alla fine della funzione con queste parole: “Mi è stato chiesto di tagliare il tiglio che è nello spazio di fronte all’ingresso della Chiesa per farne legna da ardere in queste fredde sere d’Inverno improvviso. Questa notte ho pregato il Nostro Santo Patrono il quale in sogno mi ha risposto: lascia il tiglio dov’è e offri un po’ di legna dalla catasta che hai nel giardino a quanti affrontano il freddo. L’albero mi è caro poiché offre riparo agli uccelli, ombra ai passanti, frescura alle persone che vengono a celebrare con te i sacramenti durante l’Estate. Mi sono svegliato e, oggi, lo comunico a voi.”
Così ordinò a quel contadino della sera precedente di prendere una buona quantità di legna dalla catasta nel giardino e di portarla sul piazzale dove fu disposta sotto un grande lenzuolo di plastica.
I contadini, seguendo l’esempio del buon curato, presero anch’essi dalle scorte di casa parte della legna per alimentare il fuoco all’aperto, scaldandosi per i lunghi mesi che precedettero il ritorno nelle loro abitazioni.
Nell’agosto del 2007 il buon curato spirò nella sua canonica in odore di santità e la grande folla, che aspettò la funzione funebre svoltasi nella chiesetta dove aveva celebrato la santa Messa per anni, si riparò dal caldo torrido di quell’Estate all’ombra del grande tiglio il quale, ancora oggi, gode di buona salute proprio come aveva svelato in sogno il Santo Patrono al vecchio curato.
Buongiorno, dal poeta scrittore Carmine Correale.
Ringrazio il redattore Vincenzo D’Alessio per il significativo e commovente articolo dedicato alla memoria del nostro indimenticabile Parroco Don Raimondo di San Felice (Montoro, AV) sensibile e buon curato di questa piccola frazione, il mio villaggio natio.
Con il mio scrivere e poetare.non ho tralasciato i bei ricordi della mia infanzia e fanciullezza, trascorsi insieme ai coetanei e ai compagni di classe, immersi ogni giorno nei tanti giochi e divertimenti all’aria aperta e in particolare nella piazzetta antistante la canonica, proprio all’ombra del secolare albero di tiglio, oppure sulla strada del bivio “Croce”, poco distante.
Attraverso la mia cultura , arte e poesia dei valori della vita, che pubblico ogni giorno sulle pagine di Facebook, vorrei anch’io ricordare e omaggiare i residenti e compagni dei giochi, e onorare alla sua memoria il nostro buon curato Don Raimondo.
In effetti, in ricordo del nostro sacerdote e dei concittadini di San Felice, nel 2010 ho pubblicato e dedicato una mia opera letteraria, reperibile e in vendita nelle librerie d’Italia dal titolo “Le avventure dei ragazzi di San Felice”(http://carmine-correale.it/le-avventure-dei-ragazzi-di-san-felice/), una interessante narrazione, con ampia descrizione del posto, ricco di nobili tradizioni, con immagini dei salubri luoghi e tanto altro rappresentato nella lettura del libro.
Autore: dott. Carmine Correale (Poeta, scrittore, saggista e artista).